Questi due anni appena trascorsi ci hanno permesso di sperimentare un differente percezione del tempo sia personale che collettivo, di cambiare velocità, di rallentare al punto di fermarci. Questi mesi hanno palesato l’esistenza di un prima e di un dopo, qualche cosa è realmente successo, ingannevole negarlo.
Qualcuno correva talmente forte che fermandosi d’un tratto ha subito uno choc, un contraccolpo; l’effetto del passare da un tutto pieno, al punto di non aver il tempo per nulla, ad un impensabile vuoto (un tempo dilatato, stirato, lento con delle punte di esorbitante attesa) è stata quella di dover riorganizzare la propria vita, le relazioni ed anche i pensieri, ripensare il proprio mondo. Rielaborare i limiti.
Tutto attorno si è fatto decelerazione ed abbiamo ritrovato il silenzio.
Silenzio di giorno quando non si poteva uscire di casa, città deserte, strade deserte, vite deserte.
Silenzio di notte. Nessun rumore là fuori.
Incrociando un passante sul marciapiede non di rado ci si affrettava ad attraversare la strada per mettersi in salvo sul lato opposto. Nessun contatto, ricordate? Scenari da film
Il nostro mondo si è trovato sospeso più che mai tra un prima ed un nulla, un’attesa.
Non si riusciva a capire più niente; l’informazione confusa, caotica, spiazzata dagli eventi, non diffondeva spiegazioni o ragioni, ha invece cominciato a dare i numeri; solo numeri.
Abbiamo ripreso a contare.
Uno, due, tre, cento, duecento e poi tremila ventimila o centomila ... di che? Ti tutto. Di gente, di malati, di morti, di mascherine, di respiratori, di posti letto, di positivi, di negativi, di guariti, di invitati alle nozze, di presenti al funerale, di persone dentro un negozio, di metri di distanza, di commensali attorno ad un tavolo, di vaccini, di vaccinati e numeri e dati e poi grafici. Abbiamo riscoperto la statistica, senza tuttavia comprenderla: le curve, i campioni, i dati grezzi, i datti assemblati, le medie e la mediane.
E siamo ancora dentro questa pandemia, o pandemonio a questo frastuono assordante di voci discordi.
In questa distanza di tutto da tutti, di tutti dagli altri; abbiamo imparato che avvicinarsi è pericoloso, ora lo sappiamo.
Ma vivere distanti, da soli, non lo è forse di più?
In questo nuovo isolamento abbiamo imparato a diffidare dei bambini, diffidare dei nipoti, diffidare dei giovani, diffidare dei vicini, dei malati, reagire ad uno starnuto, ad una stretta di mano ad un abbraccio.
Infine, da qualche mese, ci siamo rimessi in moto lentamente con circospezione e prudenza.
Ma nel frattempo qualcuno si è perso ed ha abbandonato la scuola, altri si sono resi conto che non ne valeva la pena ed hanno cambiato città: chi ha cambiato lavoro, chi relazione, chi ha lasciato il coniuge, chi la famiglia o gli amici.
Se è ben vero che i verbi della pandemia sono tanti, vari e non tutti negativi, è altrettanto vero che molte persone manifestano ancor’oggi, in maniera più o meno cosciente, di aver perso qualcosa, qualcosa che prima c’era ed ora non più.
Ognuno di noi in fondo sa che cosa ha lasciato, rimosso o smarrito.
Non è più il tempo di andare, partire, scoprire, si preferisce restare, aspettare, procrastinare.
E allora la domanda è la seguente:
E se tornassimo tutti in presenza? in presenza a sé stessi, con un progetto, un sogno, un proposito da realizzare.
I bambini lo sanno bene, a stare fermi troppo a lungo ci si annoia, a stare troppo da soli si diventa tristi, a litigare con tutti e con tutto ci si sente soli. I bambini lo sanno che c’è bisogno di condividere, di stare assieme, di giocare con qualcuno, di danzare di correre, di sognare e di ridere… in compagnia.
Perché se è vero che questi due anni di solitudine ci hanno reso delle isole, allora si tratta di costruire nuovi ponti per ritrovare quel sentimento di appartenenza di cui tutti abbiamo bisogno.
E' arrivato il momento di tornare in presenza ognuno alla propria velocità, al proprio ritmo con le proprie possibilità, determinazione ed entusiasmo, é l'ora di rimettersi in gioco.
di Cecilia Millich
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